C'era una volta la satira
Manca un solo giorno alle elezioni: nel giro di 48 ore sapremo chi governerà l’Italia, o proverà a farlo, nei prossimi cinque anni. La campagna elettorale che si è chiusa ieri non verrà certo ricordata per la sobrietà dei modi e dei contenuti proposti dai vari contendenti. Eppure c’è un episodio, tra gli innumerevoli di questi ultimi mesi, che mi ha colpito particolarmente.
E non è nemmeno legato direttamente alla politica: si tratta infatti della contestazione subita da Maurizio Crozza lo scorso 12 febbraio sul palco dell’Ariston, a Sanremo. Ho volutamente lasciato passare diversi giorni prima di pubblicare questo post, così da far calmare le acque e sviluppare una riflessione di più ampio respiro. Una riflessione che comincia come una favola.
C’era una volta la satira. Erano i tempi di Omero e Aristofane, di Lucilio, Orazio e Giovenale. Nel corso dei secoli, la satira ha sempre mantenuto il suo ruolo di libera irrisione dei potenti, temuta da questi ultimi e amata dalla gente comune.
Per capire meglio ciò di cui stiamo parlando possiamo citare la Corte di Cassazione, che nel 2006 ha definito la satira come «quella manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores, ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene».
Maurizio Crozza è sicuramente uno tra i migliori comici satirici attualmente presenti sulla scena italiana: le sue parodie graffianti hanno infastidito diversi uomini politici, che in più di un’occasione gli hanno fatto capire di non gradire le sue critiche presentate sotto forma di sfottò. Ma non è solo il fastidio personale ad animare chi tenta di arginare o far tacere i comici.
Quanto accaduto a Sanremo si può spiegare in diversi modi. Una prima ipotesi, piuttosto semplice, è basata sulla malafede dei contestatori: i due, vedendo l’imitazione di Berlusconi, da veri paladini della par condicio non hanno avuto la pazienza di aspettare che il comico genovese completasse il suo numero, che prevedeva – com’era logico aspettarsi – la presa in giro di tutti i leader candidati alle elezioni politiche.
Ora, è del tutto assurdo voler applicare la par condicio alla satira. Parlare di satira di parte non ha alcun senso, dal momento che la scelta del bersaglio spetta solo e unicamente al comico, il quale vede qualcosa che giudica marcio e lo rende noto al suo pubblico di cittadini. Il comico – quello satirico in particolare – è per sua natura irriverente, non deve rendere conto a nessuno, per certi aspetti è il re del mondo.
Questa è la differenza tra giornalisti e comici satirici, che pure sono spesso bersaglio delle stesse accuse e ritorsioni: i primi hanno la responsabilità di informare, basandosi su fatti accertati e seguendo criteri di obiettività, mentre i secondi devono far riflettere divertendo, compito che non può essere assimilato all’informazione, e nemmeno sottoposto ai suoi stessi limiti.
Nonostante ciò, in ossequio a quel cerchiobottismo che per molti italiani è sinonimo di obiettività, Crozza aveva preparato un numero il più possibile equidistante da qualsiasi posizione politica. Ma non è bastato. Allora, forse, è lecito chiedersi: che senso ha oggi la par condicio? Che senso ha una legge nata per garantire alle forze politiche «parità di accesso ai mezzi di comunicazione», diventata poi l’unico argine opponibile allo strapotere mediatico di Berlusconi, e infine trasformatasi in un’arma per zittire persino i comici?
Come ogni legge progettata per uno scopo nobile, ma che ha prodotto enormi distorsioni una volta applicata (lo stesso accade con il finanziamento pubblico ai partiti e all’editoria, per esempio), la par condicio è alla base di un paradosso unico: ostacola l’esercizio di funzioni basilari, come la comunicazione istituzionale degli enti pubblici, ma permette alle forze politiche di chiudere la bocca ai comici sgraditi in nome di un mal riposto senso di uguaglianza.
Eppure non è tutto qui. La domanda successiva, infatti, è questa: e se il punto non fosse la par condicio? E se da parte di una certa politica ci fosse la volontà sistematica di attutire, confondere o addirittura censurare la voce di chi – senza usare i noiosi stilemi del politichese – riesce a far riflettere le persone sui problemi più gravi che affliggono questo Paese? Perché è proprio questo il compito della satira: far pensare facendo ridere. Che sia per questo che frotte di politici si scagliano continuamente contro la “satira di parte”?
La satira di parte, come detto, non esiste: la satira è satira, punto. Chi teme un comico solo perché racconta i problemi del Paese ha qualcosa da nascondere, e preferisce che i cittadini rimangano ignoranti, così continueranno a scegliere senza cognizione di causa chi li deve governare. Sarà per questo che la contestazione a Crozza, più che la protesta del pubblico in un Paese democratico, mi ha ricordato i due minuti d’odio di 1984?
Una cosa è certa: che per le ragioni sopra menzionate, il più grande nemico della satira, come di tutte le manifestazioni del libero pensiero, è sempre stato il potere. Perché se c’è qualcosa che il potere teme sono le menti pensanti, consapevoli e dunque autonome nel loro giudizio. Perciò diffidate di chi non vuole farvi pensare, di chi chiude la bocca ai giornalisti e, naturalmente, di chi teme il giudizio divertito e tagliente della satira.
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