Il Corvo di James O’Barr, lettera dal vuoto oltre il dolore
Il Corvo di James O’Barr è un classico della nona arte, un cult a tutti gli effetti. Non solo per la trasposizione cinematografica che ne ha fatto un film bello e maledetto in tempi non sospetti (1994), quando ancora il fumetto non era terreno di conquiste hollywoodiane.
Ma soprattutto perché il graphic novel, uscito in quattro parti tra il 1989 e il 1990, nasce e si sviluppa dal tentativo dell’autore di elaborare una tragica esperienza personale. Il Corvo di James O’Barr è un atto di catarsi, la manifestazione di un’esigenza espressiva autentica e immedita, degna della migliore arte.
A rivelarlo è l’introduzione al volume firmata da John Bergin: «Il Corvo proviene dal vuoto che c’è oltre il dolore, la tristezza o le parole. Il libro che tenete tra le mani è il luogo dove James ha posto tutta la frustrazione e la rabbia che provava quando qualcuno che amava gli è stato strappato via… ed è un tentativo di trovare ordine e giustizia lì dove non ce n’è».
Dolore, perdita, giustizia e ingiustizia. Con questo articolo inauguriamo un mese dedicato all’ingiustizia e alle reazioni spesso abnormi che essa provoca. Quando si tratta di ingiustizie subite a livello personale, infatti, a giudicare dal mondo che ci circonda l’unico rimedio per lo spirito umano sembra essere la vendetta.
Siamo letteralmente circondati da feroci storie di vendetta. Non c’è bisogno di arrivare a Tarantino, basta guardare la cronaca recente per interrogarsi su quelle circostanze in cui non sembra esserci spazio per il perdono. Quando la comprensione rimane oltre la portata dell’essere umano, irrimediabilmente accecato dal dolore.
Non a caso, James O’Barr rappresenta più volte nel suo racconto grafico la figura di Gesù Cristo, spesso in lacrime di fronte alle azioni di Eric, ormai guidate soltanto dalla furia vendicatrice. A soffiare sul fuoco della rabbia implacabile del protagonista ecco il Corvo, la misteriosa entità che lo riporta in vita per compiere la sua vendetta.
«Per centinaia di migliaia di anni, il più grande degli dèi è stato il Corvo, il latore di sogni, che ha portato la civiltà all’era paleolitica», ci spiega A.A. Attanasio nella postfazione. «Il Corvo è la fame del cielo. Quando viene giù, divora qualsiasi cosa, anche i morti. Non rifiuta niente, è invulnerabile. Ed è più vasto del tempo stesso».
Un’origine che acuisce ancora di più il contrasto tra le due figure, spesso presentate in contrapposizione. Da un lato una divinità ancestrale, vorace, oscura e animalesca, con le fattezze di un corvo. Dall’altro un Dio per il mondo civilizzato, un Uomo la cui vita è un manifesto all’insegna della fratellanza, della comprensione e del perdono, anche nel momento più buio del tradimento e della fine.
Entrambi promettono una nuova vita dopo la morte, ma in modo diametralmente opposto. Affogato in un dolore senza soluzione, Eric rifiuta il Dio cristiano per votarsi alla dannazione del Corvo. La sua vendetta non è scintillante, non è un atto di appagamento estetico dal quale possa derivare una qualche rasserenazione. È solo un modo per placare momentaneamente la sofferenza, prima di ricongiungersi all’amata.
Il Corvo applica attraverso la mano di Eric l’antica legge del taglione. Occhio per occhio dente per dente, senza alcuna pietà per i colpevoli. Gli innocenti invece sono risparmiati: solo attraverso il rapporto con alcuni di essi – i poliziotti Albrecht e Uncino, la piccola Sherri e il gatto Gabriel – Eric sembra in grado di recuperare per pochi istanti la sua umanità.
Per il resto, l’unica via di redenzione – a prezzo di atroci sofferenze – è il ricordo dell’amata Shelly, perduta per sempre in una notte di violenza tragica e insensata. Le immagini eteree dei due ragazzi insieme, felici e bellissimi, sono dipinte dall’autore con intensità commovente, che riesce a trasmettere tutta la disperazione di Eric per la felicità perduta.
Una felicità preziosa, come ci invita a notare John Bergin: «Imparate questa lezione da Il Corvo, pensate a ciò che avete da perdere». Perché la felicità è anche qualcosa di tremendamente fragile, che nel caso di Eric e Shelly non regge l’impatto con una realtà arida e mortifera. Uno scenario apocalittico chiamato Detroit, città perduta e palcoscenico ideale – forse addirittura complice – dell’atto spregevole che priva i due giovani del loro amore e delle loro vite.
Dalla fine degli ’70 la crisi dell’industria motoristica ha fatto perdere alla città un terzo dei suoi abitanti, lasciando 80mila edifici abbandonati come una cicatrice a testimonianza del tracollo. Quasi a dimostrare che le grandi ingiustizie sociali producono innumerevoli ingiustizie individuali, spesso fino alle estreme conseguenze. E a quel punto è troppo tardi per intervenire.
La Detroit di James O’Barr è persino più cupa dell’originale, una sorta di Gotham City meno variopinta e in balìa degli sbandati. Una rappresentazione che condivide le atmosfere oscure di numerosi capolavori a fumetti dagli anni ’80, l’estetica dark del primo Tim Burton, la poetica di gruppi come Cure e Joy Division, l’eco dei versi del maudit Arthur Rimbaud.
James O’Barr spinge questi elementi fino all’estremo, in termini visivi e narrativi: sempre vestito di nero, Eric si trucca il viso di bianco e assume spesso pose femminili, ma in modo innaturale e distorto. I tagli sulle braccia e gli altri modi in cui il ragazzo infligge dolore a sé stesso raccontano la sua sofferenza, anticipando amaramente la progressiva diffusione di simili abitudini tra gli adolescenti di tutto il mondo.
Il Corvo di James O’Barr è un pugno nello stomaco: per quanto si possa essere preparati, la prima volta fa male. Il perché ce lo spiega ancora Attanasio: «Nessun mortale ha il diritto di prendere la vita o il corpo di un altro, eppure c’è gente che viene seviziata e uccisa a ogni ora, il mondo intero è infetto».
«Nella nostra ignoranza e bestiale avidità abbiamo seviziato e ucciso la sola donna che il Corvo abbia mai amato. Ora la sua maschera sfregiata riempie il mondo. E ognuno di noi è una sua vittima».
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