Digital journalism, una frontiera ancora da esplorare
Si fa presto a dire digital journalism, come se fosse una questione assodata, un dato di fatto. E invece i punti interrogativi sul futuro sono talmente tanti che il giornalismo digitale può essere definito, senza timore di esagerazioni, una frontiera ancora in gran parte ancora da esplorare.
Quale modello di business? Quali strategie di web marketing? Quale uso dei social e rapporto con il loro strapotere? Quali soluzioni alla minaccia delle fake news online?
A queste e ad altre domande altrettanto urgenti e attuali ha provato a dare una risposta molto concreta il Web Marketing Festival 2017. Nel cartellone della sua quinta edizione (23 e 24 giugno scorsi a Rimini) hanno infatti trovato spazio una serie di approfondimenti dedicati proprio al digital journalism.
Digital journalism: advertising o morte
Proprio dalle incognite sul futuro è partito Alessandro Giagnoli di MovingUp, azienda che si occupa di web advertising anche per importanti realtà editoriali italiane.
I principali problemi dell’editoria ai tempi del web, ha evidenziato Giagnoli, sono i costi di produzione troppo alti, la moltiplicazione delle testate, il calo delle entrate provenienti dal cartaceo e la parcellizzazione degli spazi di mercato pubblicitario.
Per far fronte a queste criticità, tutti i modelli di business attualmente disponibili – da quello più tradizionale basato sulle entrate per mille impressioni al paywall, passando per il native advertising – richiedono un aumento del traffico sul sito.
Un obiettivo ovvio quanto difficile, che MovingUp propone di raggiungere attraverso contenuti on demand creati in base alla richiesta informativa degli utenti, da rilevare attraverso una maggiore attenzione ai trend di ricerca e social (a questo scopo, l’azienda mette a disposizione l’interessante tool gratuito app.trendsexplosion.com, con dati aggiornati quotidianamente).
Tra i suggerimenti offerti da Giagnoli alla platea del WMF anche un uso più approfondito degli strumenti di Google News, il ricorso allo split test sui titoli degli articoli per individuare l’alternativa più efficace, la distinzione tra titolo SEO e titoli social (che assolvono a funzioni diverse) e un lavoro approfondito per mantenere i visitatori sul proprio sito dopo la lettura di un articolo.
Più contenuti (minimo 15-20 al giorno) ma di maggior qualità – anche utilizzando tool per migliorare i propri testi – devono accompagnarsi a una valutazione scrupolosa nell’inserimento della pubblicità, per evitare che sia invasiva e capire a quanti utenti realmente arriva, al netto di chi usa ad block: non sempre più pubblicità significa maggiori introiti.
Digital journalism: occhio alle fake news
Di una minaccia altrettanto concreta alla crescita del digital journalism ha parlato Filippo Tramelli della cooperativa giornalistica Primopiano, con un invervento dedicato a fake news e post verità.
Dopo il boom del 2016 – con l’elezione di Trump, l’inclusione del termine nell’Oxford dictionary e l’arrivo in Italia con la dichiarazione-bufala di Gentiloni sui sacrifici degli italiani – anche il fenomeno della post verità si sta rivelando una bolla non dissimile da altre del passato. Con la differenza che oggi le persone si informano prevalentemente sui social.
Nell’epoca in cui Facebook ha superato le fonti tradizionali come maggior detentore di notizie al mondo, il fact checking da solo non basta più. Servono una serie di accorgimenti non soltanto contro i produttori conclamati di fake news, ma anche nei confronti di tante “notizie” acchiappa-clic prodotte dalle fonti tradizionali.
È il problema di un modello di business editoriale basato sul volume invece che sul valore, sottolinea giustamente Tramelli. Se a questo si aggiunge la fretta di pubblicare, che sottrae ai giornalisti il tempo per verificare le notizie, il gioco è fatto.
Come difendersi? Prima di tutto facendo attenzione a ciò che si legge, provando a capire la differenza tra una lettura su Facebook o dopo una ricerca su Google. Poi effettuando una serie di verifiche puntuali: sulla notizia in sé, su immagini e video attraverso la ricerca inversa e i metadati, sulle persone e sul dominio dei siti web.
La creazione e l’utilizzo di un manuale per le verifiche di routine dovrebbe essere una pratica diffusa in ogni redazione, così come a volte può essere una buona idea fare una semplice telefonata.
Digital journalism: un’alternativa chiamata membership
Tornando a ragionare di modelli di business dopo la parentesi dedicata alla post verità, viene da chiedersi se non esista un’alternativa alla dittatura dell’advertising. Proprio a questa domanda prova a rispondere Giulio Alibrandi del sito di news The Post Internazionale, proponendo un’opzione decisamente interessante.
Si tratta della membership, un meccanismo ampiamente sperimentato dal Guardian dopo i primi passi nel mondo delle radio. In sostanza, si chiede ai lettori un contributo economico in cambio di una serie di vantaggi esclusivi, valutandone preventivamente la disponibilità attraverso un questionario.
Nel modello proposto dal Guardian, ad esempio, i contenuti esclusivi sono marginali: è molto più importante la comunità che si crea intorno al giornale, il contributo che i lettori sentono di offrire alla “causa” e il ringraziamento ricevuto per questo.
Altri possibili vantaggi da proporre ai lettori, la fruizione di contenuti privi di pubblicità, newsletter tematiche, eventi dedicati (come ad esempio incontri con i giornalisti), la creazione di una community sui social, spazi per i contenuti proposti da loro (blog).
Esempi internazionali di successo sono l’olandese The correspondent – testata d’inchiesta indipendente basata su una forma di collaborazione in cui i giornalisti annunciano ai lettori le storie su cui lavorano, ricevendo input e contributi – e lo spagnolo eldiario.es, che offre ai propri sostenitori una rivista, trasparenza assoluta sui bilanci e priorità dei commenti sui social.
Digital journalism: Twitter, Twitter e ancora Twitter
E proprio ai social ha dedicato il suo intervento Pamela Ferrara, audience development manager per il gruppo editoriale Quotidiano Nazionale (Il Resto del Carlino-La Nazione), che ha presentato una serie di consigli e strategie per l’uso di Twitter, habitat naturale dell’informazione (#news è l’hashtag più twittato nel 2016 in Italia).
Attraverso gli account delle istituzioni, infatti, le notizie ormai arrivano su Twitter prima che alle agenzie di stampa. Caratteristiche chiave come l’uso degli hashtag hanno creato abitudini ormai diffuse come quella del double screen (trasmissioni tv che invitano gli spettatori a twittare con determinati hashtag per poi leggerli in diretta).
Twitter è diverso da Facebook e Instagram, per questo non è una buona idea proporre gli stessi contenuti o peggio ripubblicarli automaticamente. Recentemente, del resto, anche Twitter ha introdotto un algoritmo per determinare lo stream che ciascun utente si ritrova in home page, basato sulle preferenze indicate all’iscrizione, sulla storia di navigazione e il livello di engagement.
Ecco, l’engagement: una parola che per molti social media manager suona come un’utopia o una chimera. Su Twitter – spiega Pamela Ferrara – le due cose che funzionano di più sono lo storytelling emozionale e il live tweeting (con gli hashtag corretti e monitorando le tendenze).
Il tweet perfetto è breve, sintetico e incisivo, riporta in coda un link di approfondimento e utilizza un hashtag, due al massimo. Quando ci si presenta ai propri utenti su questa piattaforma, è bene comunicare con chiarezza (evitando abbrevizioni criptiche), essere onesti e parlare con competenza di argomenti che si conoscono bene.
Dieci consigli per avere successo su Twitter? 1) essere velociti, 2) curare la forma, 3) monitorare le tendenze, 4) usare immagini e video, 5) rispondere ai commenti, 6) ritwittare info utili ai follower (curation), 7) menzionare gli interessati, 8) usare le liste, 9) curare il profilo con originalità, 10) usare l’ironia per entrare in relazione con gli altri.
Tra una pausa e un salto in plenaria, la sala dedicata al digital journalism ha proposto anche l’intervento di Daniele Chieffi (Eni) sulla gestione delle crisi e la difesa della reputazione sui social, e quello di Roberto Zarriello (Tiscali) sulle opportunità del brand journalism.
Un programma ricco di spunti, in grado di offrire indicazioni concrete per tutti i giornalisti lanciati alla conquista del web. Una frontiera dove ancora stentano ad affermarsi regole certe e strategie valide per tutte le stagioni. Proprio per questo, il Web Marketing Festival diventa un punto di riferimento importante, da seguire nel corso degli anni e nelle sue molteplici direzioni di approfondimento.
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Tag: advertising, Alessandro Giagnoli, fake news, Filippo Tramelli, Giulio Alibrandi, membership, pamela ferrara, post verità, Twitter, web marketing festival