Brescello sciolto per mafia e processo Aemilia: la ‘ndrangheta in Emilia-Romagna
Il Comune di Brescello sciolto per mafia è il primo della storia in Emilia-Romagna. Nella settimana in cui entra nel vivo il processo Aemilia, la decisione del Consiglio dei Ministri certifica un fatto ormai noto: anche l’Emilia-Romagna è terra di mafie, e di ‘ndrangheta in particolare nel triangolo Reggio-Modena-Parma.
La relazione presentata al CdM dai tre commissari prefettizi che hanno indagato in questi mesi non è stata divulgata. Ma secondo diverse fonti di stampa le verifiche si sarebbero concentrate sui rapporti tra il clan ‘ndranghetista Grande Aracri e il Comune, nelle persone di Ermes Coffrini (sindaco dal 1985 al 2004) e del figlio Marcello, anche lui sindaco dal 2014 al 2016 dopo aver ricoperto il ruolo di assessore all’Urbanistica nei due mandati della Giunta precedente (2004-2014).
A Brescello «sono state accertate forme di condizionamento della vita amministrativa da parte della criminalità organizzata», scrive il Governo. Tra gli episodi esaminati ci sarebbero le minacce del clan a una consigliera comunale che non aveva accettato in coalizione candidati legati alla criminalità organizzata. Ma anche una variante urbanistica approvata per trasferire diritti edificatori nella zona di Cutrello, frazione di residenza della famiglia Grande Aracri.
Quest’ultimo fatto – che al pari degli altri dovrà essere verificato dalla magistratura – sarebbe inserito in un quadro di rapporti apparentemente continuativi tra il clan e la famiglia Coffrini, tanto nell’attività professionale dell’avvocato Ermes – legale dei Grande Aracri dal 2002 al 2006 – quanto nelle dichiarazioni pubbliche del sindaco Marcello, che nel 2014 suscitò clamorose polemiche per aver definito Francesco Grande Aracri (già condannato in via definitiva a 3 anni e 6 mesi per associazione mafiosa) «una brava persona».
Questo senza considerare altri due episodi controversi risalenti al 2002: la dura reazione del sindaco Ermes Coffrini al grido di allarme di un barista vittima di estorsione, che aveva appeso fuori dal locale il cartello “Chiuso per mafia”, e il licenziamento di un dipendente comunale – al quale la Cassazione ha recentemente dato ragione – colpevole di aver raccontato da giornalista i rapporti tra amministrazione, imprenditoria e clan.
Il Comune di Brescello sciolto per mafia, vicenda eccezionale nella sua gravità, non è certo un caso isolato: lo dimostra il processo Aemilia, scaturito dall’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Bologna e attualmente in corso a Reggio Emilia. Sono 147 gli imputati, per metà emiliano-romagnoli, che dovranno rispondere a vario titolo dei reati di associazione mafiosa (37), estorsione, danneggiamento, minacce, usura, truffa, riciclaggio e reati ambientali, spesso con l’aggravante del metodo mafioso.
Rapporti tra ‘ndrangheta, politica e imprenditoria: di questo ha parlato alla magistratura anche Giuseppe Giglio – primo pentito di ‘ndrangheta in Emilia-Romagna – raccontando alla magistratura un vero e proprio patto tra i referenti emiliani del clan Grande Aracri e alcuni politici locali, basato su un collaudato sistema di corruzione per ottenere appalti.
Dichiarazioni che dovranno essere verificate dagli inquirenti anche in relazione alle prime sentenze del Tribunale di Bologna per i 71 imputati di Aemilia che avevano scelto il rito abbreviato. Arrivate due giorni dopo la notizia di Brescello sciolto per mafia, tra le 58 condanne per complessivi 305 anni spiccano quelle al boss Nicolino Grande Aracri (6 anni e 8 mesi) e allo stesso Giglio (12 anni e 6 mesi), giudicati colpevoli insieme a numerose figure di vertice del clan e a diversi professionisti emiliani.
Proprio le dichiarazioni di Giglio risultano però in apparente contraddizione con il giudizio sui politici coinvolti, dall’assoluzione dell’ex consigliere comunale di Reggio Emilia Giuseppe Pagliani, indicato dal pentito come referente politico della ‘ndrangheta, al prosciogliento per intervenuta prescrizione dell’ex assessore del Comune di Parma, Giovanni Paolo Bernini, accusato di voto di scambio.
Il quadro è ancora in divenire, con il processo di Reggio appena alla seconda udienza e la collaborazione di Giglio partita a dibattimento già iniziato. Ma restano chiare la dimensione e la profondità del radicamento ‘ndranghetista in terra emiliana, arrivato a lambire persino la Commissione antimafia del Senato.
Radicamento e non semplice infiltrazione, perché in diversi dei casi citati – a partire dallo stesso Giglio – l’attività criminale è pluridecennale e robustamente strutturata sul territorio. Un fatto di cui le istituzioni sembrano consapevoli, come dimostra la dura presa di posizione dell’assessore regionale Mezzetti sul Comune di Brescello sciolto per mafia e la scelta di costituirsi parte civile nel processo Aemilia da parte della Regione (risarcita con 600mila euro), della Provincia di Reggio (100mila euro) e di vari Comuni (150mila euro).
Di certo ogni atteggiamento di rimozione è ormai insostenibile: amministratori, imprenditori e cittadini dell’Emilia-Romagna devono essere consapevoli che la presenza mafiosa in regione è una realtà consolidata e verificata, e che una presa di coscienza del problema non è più rinviabile. Anche perché è il primo passo necessario per affrontare la situazione a testa alta.
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