Diario di un Festival / 2: guardare non è più un atto innocente
Anche quest’anno il Festival di Santarcangelo si è concluso dopo 10 giorni di emozioni e spettacoli, con numeri che confermano l’importanza della kermesse in termini di seguito e di proposta. Oltre al consueto apprezzamento da parte degli addetti ai lavori, quest’anno il Festival si è portato dietro una coda polemica legata alla performance (untitled) (2000) del coreografo Tino Sehgal, interpretata dal danzatore Frank Willens.
Polemica alimentata dalle destre locali, ansiose di imporre la propria concezione di moralità pubblica a difesa dello “sguardo innocente” di bambini, turisti e semplici passanti. Ma il Festival, non a caso, aveva scelto come frase simbolo dell’edizione 2015 queste parole di Romeo Castellucci: «Guardare non è più un atto innocente». Una coincidenza?
Tutt’altro, perché l’obiettivo di questo Festival era esplorare le frontiere dell’indicibile, percorrere sentieri sul ciglio della logica, spingersi in territori che il discorso razionale sulla società non può o non vuole esplorare. Quindi, perché inseguire la pochezza di qualcuno sul terreno della polemica?
Meglio parlare del Festival nel suo insieme, completando il quadro cominciato la scorsa settimana nel tentativo di raccontare 10 giorni di kermesse attraverso altrettanti spettacoli, installazioni o performance: dopo le cinque mini-recensioni della prima parte, ecco la seconda metà del ritratto.
Following (di Christopher Nolan, a cura di Strasse) – Premetto che sono un grande fan di Christopher Nolan: ho visto tutti i suoi film ed ero sinceramente entusiasta all’idea di rivedere il suo lavoro d’esordio proiettato gratuitamente in piazza Ganganelli. Peccato che il tentativo del gruppo di ricerca performativa Strasse di rielaborare il film si sia tradotto, dal mio punto di vista, in un totale disastro: un’accozzaglia d’immagini e una cacofonia di suoni in cui, con tutta la buona volontà, è stato difficile trovare un senso, e che ha deluso il pubblico accorso numeroso a vedere il film, me compreso: sicuramente il punto meno entusiasmante del mio Festival.
Time has fallen asleep in the afternoon sunshine (di Mette Edvardsen) – Chi ha letto Fahrenheit 451 di Ray Bradbury non si stupirà all’idea, su cui si basa questo spettacolo, di persone che imparano interi libri a memoria per raccontarli ad altri. Ma un conto è leggerlo in un romanzo, altra cosa è sperimentarlo in prima persona: seduto in una delle grandi sale della biblioteca Baldini ho ascoltato per trenta minuti il primo capitolo di Così parlo Zarathustra di Friedrich Nietzsche, dalla viva voce di un’attrice che lo ha recitato per me soltanto, senza sbagliare una virgola. Un tributo meraviglioso ai libri e alla loro forza. Un’esperienza unica.
MDLSX (Motus) – In una frase, che non è mia ma che raccolgo ringraziandone l’autrice, questo può essere definito “lo spettacolo che vale un Festival”. In scena c’è Silvia Calderoni, che sul palco esplora la natura e il senso dei confini, delle categorie. Il confine tra danza, musica e teatro; il confine tra realtà e finzione narrativa; il confine tra uomo e donna. MDLSX è stato definito un coming out teatrale, ma anche questa etichetta è una categoria, e come tale limitante. Lo spettacolo, in realtà, è il racconto – sincero e commovente fino alle lacrime – del percorso umano dell’attrice protagonista verso la scoperta e l’accettazione di sé, del proprio corpo e della propria sessualità. Un percorso raccontato con letture dal romanzo Middlesex di Jeffrey Eugenides e video provenienti dall’archivio di famiglia, in una cornice musicale che permette a Silvia Calderoni di raccontare con una danza, ipnotica e irrefrenabile, le emozioni che non le sarebbe stato possibile raccontare con le parole. Imperdibile.
Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni (di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini) – La frase che dà il titolo allo spettacolo è tratta dal romanzo L’esattore (2011), dello scrittore greco Petros Markarīs, che immagina il suicidio di quattro anziane donne greche ridotte alla disperazione dalla crisi economica. A partire da questo scenario, immaginario eppure terribilmente reale, lo spettacolo si confronta costantemente con l’impossibilità di raccontare le attuali vicende della Grecia da un punto di vista veramente umano e in grado di rendere giustizia alle tante vite distrutte dalla crisi. Con un’ironia sempre misurata e mai invadente, che contrasta volumente con punte di autentica tragedia – tra cui la scoperta che un fatto del genere in Italia è accaduto davvero – lo spettacolo si conclude abbracciando il silenzio e l’oblio, come unici strumenti per descrivere l’impotenza nei confronti del racconto e della vita stessa.
Vita agli arresti di Aun San Suu Kyi (Teatro delle Albe) – Dopo Pantani (2012), Ermanna Montanari e Marco Martinelli tornano a raccontare un personaggio-simbolo della nostra epoca. Aung San Suu Kyi, attivista per la democrazia in Birmania, è ritratta con intensità e precisione nel suo percorso da figlia del generale Aung San, padre della nazione perso all’età di due anni, fino alla liberazione dagli arresti nel novembre 2010, dopo oltre vent’anni. Un racconto, nonostante la materia trattata, non del tutto improntato al realismo: gli spiriti della tradizione birmana rappresentano le paure, le frustrazioni e le tentazioni di Suu, mentre i generali della giunta militare sono evocati come fantasmi. Una carrellata di personaggi grotteschi e caricaturali che fa sembrare reale solo Aung San Suu Kyi, inamovibile nei suoi principi e nella ricerca di una democrazia autentica per la Birmania, che insegue ancora oggi all’età di 70 anni nonostante le difficoltà e le offese del tempo che passa.
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