Luca Rasponi

Giornalista e addetto stampa, scrivo per lavoro e per passione.

25 aprile, una scelta di campo

25 aprile 2012

Quando ero bambino credevo che la Liberazione fosse una festa di tutti. Poi, crescendo, ho capito che in realtà si tratta inevitabilmente di una ricorrenza che divide, soprattutto per due motivi. Innanzitutto perché c’è chi ancora porta avanti le idee della parte sconfitta dalla Storia nel corso della guerra di Liberazione nazionale. In secondo luogo perché anche i vincitori hanno commesso in alcuni casi eccessi, errori o addirittura crimini, che per lungo tempo non sono stati riconosciuti.

Su entrambi questi due aspetti, molte cose dovrebbero cambiare. Innanzitutto, credo siano maturi i tempi per l’abolizione del reato di apologia del fascismo. Un’idea politica del genere, che io per primo ritengo deprecapibile e inaccettabile, dovrebbe però essere sanzionata dalla morale, non dalla legge. Porre queste persone in un’area di illegalità non solo significa abbassarsi al loro livello pur di impedire la rinascita del fascismo, che nella realtà dei fatti non è mai morto, ma vuol dire anche dar modo a questi individui di ritenersi vittime della censura di Stato e presentarsi come tali agli occhi dell’opinione pubblica. La nostra Costituzione sancisce per ognuno il diritto ad esprimere liberamente la propria opinione, qualunque essa sia: forse è tempo che non sia più la forza delle leggi, ma l’occhio vigile della cultura e della coscienza civile, a contrastare non tanto la forma, quanto piuttosto le idee di un rinnovato fascismo del XXI secolo.

Quanto al secondo aspetto, è fondamentale tenere gli occhi aperti sugli errori commessi anche da chi storicamente ha dimostrato di essere dalla parte giusta. Questo per non porgere il fianco alla voglia di revisionismo che molti, anche dalla parte dei vincitori, stanno dimostrando di avere. La Resistenza è un valore incontestabile, alla base del nostro Stato democratico. Un valore che non deve però diventare mito atemporale e perdere la sua importanza storica: l’azione di chi ha combattuto il fascismo è ciò che ci permette oggi di essere liberi e questo non va dimenticato. Come non va dimenticato che in ogni guerra si commettono errori, i quali devono essere riconosciuti come tali se si vuol dimostrare la trasparenza delle intenzioni e la chiarezza delle azioni che hanno contraddistinto la stragrande maggioranza dei partigiani nella loro battaglia contro il fascismo per la nostra libertà.

Detto questo, un fatto emerge chiaro. Che fino a quando permarranno i due fattori appena elencati, il 25 aprile non sarà mai una festa di tutti. E non potrà mai esserlo, fino a che in Italia ci sarà chi si reputa erede morale della Repubblica di Salò oppure vuole trasformare il giorno della Liberazione in una vacua Festa della Libertà anonima e del tutto priva di significato. Il 25 aprile è una scelta di campo: o si è antifascisti o non lo si è. E non è tanto una questione di appartenenza politica: la Resistenza non è solo un valore di sinistra. Certo, non è di destra. Ma il fronte antifascista è ed è sempre stato composito, com’è giusto che sia. Perché ad unirlo c’era e c’è la volontà di vivere in un Paese libero e democratico, dove non si possono imprigionare gli oppositori politici in nome dell’efficienza e della potenza dello Stato. Dove per avere treni in orario non si uccidono i parlamentari. Il problema è il metodo, oltre che le idee: si tratta di opporre al dispotismo la democrazia, al razzismo l’accettazione del diverso, al cameratismo e al valore dato alla forza bruta la solidarietà e l’importanza riconosciuta alla sensibilità nei confronti del prossimo.

Questo è il 25 aprile. Io non amo i manicheismi né gli estremi, ma ci sono situazioni in cui è d’obbligo una scelta. Una scelta che chiunque vive in questo Paese e si riconosce nella sua Costituzione repubblicana dovrebbe fare. Perché l’indifferenza è il terreno in cui proliferano demagogia e populismo, elementi su cui il fascismo ha costruito gran parte delle sue fortune, come tutti i regimi dittatoriali. Per questo mi associo al monito civile di Antonio Gramsci, che 95 anni fa spiegava i rischi legati all’indifferenza delle persone nei confronti delle vicende politiche. In momenti come quello in cui viviamo, in cui l’antipolitica regna sovrana, è importante ribadire che una politica fatta di valori sani e sinceri è l’unico strumento per risolvere i problemi. Affidarsi a demagoghi e salvatori della patria è un errore che abbiamo già commesso più di una volta: non ripetiamolo ancora. Politicamente si può essere pro o contro un’idea, un partito o un leader, ma mai indifferenti nei confronti di chi governa, perché questo autorizzerà i padroni del vapore a fare del Paese ciò che vogliono. L’eterna gratitudine per la Resistenza dev’essere sempre accompagnata da un’attenzione costante per impedire che in futuro debbano servire nuovamente le armi per riconquistare la libertà.

Attenzione dunque ai rigurgiti del passato, ai revisionismi e alle censure facili, ma anche all’indifferenza, all’indolenza e all’oblio della Storia. La parola a chi ha espresso questi concetti molto prima e molto meglio di me, Antonio Gramsci:

«Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L’indifferenza è il peso morto della storia. È la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde.

L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che avviene, il male che si abbatte su tutti, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare.

La fatalità che sembra dominare la storia non è altro che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E quest’ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo?

Odio gli indifferenti anche perché mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto a ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano.

Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti».

Antonio Gramsci
La città futura
11 febbraio 1917

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Commenti

Un commento per 25 aprile, una scelta di campo

  1. Alessandra scrive:

    il reato di apologia del fascismo nella prassi è stato abolito già da tempo [di fatti è possibile mettere in giro per firenze manifesti esplicitamente fascisti anche se la giunta è di presunta sinistra http://firenze.repubblica.it/cronaca/2012/03/09/news/firenze_affissi_manifesti_fascisti_con_il_timbro_del_comune-31268958/ , casa pound e i suoi figli -casaggì per esempio- non sono mai stati chiusi…e il sindaco di roma indossa una collana con la croce celtica http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2006/05_Maggio/20/alemanno.shtml ecc.ecc.]…

    • Luca Rasponi scrive:

      Il fatto che per arginare un fenomeno esista una legge che poi nella prassi non viene rispettata secondo me non fa che peggiorare la situazione: come insegna la storia di ogni forma di proibizionismo, lasciare certe situazioni in quel limbo di illegalità tollerata su cui si chiude un occhio è controproducente. O si fa rispettare nei fatti la legge vigente oppure la si abolisce e si legalizzano tutte le forme di espressione politica, come secondo me sarebbe giusto fare

  2. Andrea scrive:

    1) “credo siano maturi i tempi per l’abolizione del reato di apologia del fascismo. Un’idea politica del genere, che io per primo ritengo deprecapibile e inaccettabile, dovrebbe però essere sanzionata dalla morale, non dalla legge”.
    Vorrei iniziare da questo passaggio per dire che non serve a nessuno definire il fascismo come deprecabile e inaccettabile, è come dire che la notte fa paura perché è buia. Archiviare venti anni di storia nazionale dicendo che tutto è da dimenticare, è una scelta che anzitutto non fa di chi scrive un bravo storico.
    Vogliamo esprimere un giudizio morale sul fascismo?, d’accordo facciamolo. Dovremmo però prima accordarci su quale morale prendere a riferimento, se è quella dedotta dalla tradizione giudaico-cristiana che fa della singola persona un valore assoluto, sono d’accordo. Però poi con lo stesso metro di misura dobbiamo giudicare anche la resistenza e chi all’interno di essa lottava per instaurare un altro tipo di morale, quella che vuole la vita umana subordinata alla lotta di classe.

    2) ”è fondamentale tenere gli occhi aperti sugli errori commessi anche da chi storicamente ha dimostrato di essere dalla parte giusta. Questo per non porgere il fianco alla voglia di revisionismo che molti, anche dalla parte dei vincitori, stanno dimostrando di avere. La Resistenza è un valore incontestabile, alla base del nostro Stato democratico”.
    In questo passaggio a mio avviso vi è una contraddizione. Da una parte affermi che ci sono stati degli errori da parte della resistenza (che ti guardi bene dal descrivere), dall’altra però la resistenza è un valore incontestabile. Delle due l’una: o la resistenza è un valore incontestabile, oppure se ci sono stati degli errori deve essere soggetta a revisionismo storico.

    3) ”Che fino a quando permarranno i due fattori appena elencati, il 25 aprile non sarà mai una festa di tutti. E non potrà mai esserlo, fino a che in Italia ci sarà chi si reputa erede morale della Repubblica di Salò oppure vuole trasformare il giorno della Liberazione in una vacua Festa della Libertà anonima e del tutto priva di significato. Il 25 aprile è una scelta di campo: o si è antifascisti o non lo si è”.
    Se in Italia non c’è una memoria condivisa la colpa non è della “legge Scelba” o di chi vuole trasformare il 25 aprile in una festa vacua e anonima (semmai il problema è opposto), il punto è che la storia, come ci insegna Giampaolo Pansa, e quella dei vincitori e non quella dei vinti. Da una parte la resistenza è stata rappresentata come il mito sul quale la nascente repubblica si doveva fondare. Dall’altra il fascismo è stato rappresentato come il male assoluto e la maggior parte degli italiani dopo l’8 settembre hanno fatto a gara a dirsi antifascisti. Ciò che non si vuole ammettere è che il fascismo ha creato consenso tra le masse e se c’è riuscito è anche in forza delle politiche sociali attuate nel corso di venti anni. Troppo comodo poi fare il cambio di casacca quando cambia il vento, troppo comodo scoprire che la democrazia rappresentativa è un valore quando la guerra è ormai perduta.
    L’antifascismo non può essere la base di una memoria condivisa. Se come dici, deve essere data a tutti la possibilità di esprimere liberamente le proprie idee, questo deve avvenire nel rispetto delle idee di cui ciascuno è portatore e soprattutto delle persone che incarnano quei valori.
    Ciò che deve essere alla base di una memoria storica comune è l’analisi dei fatti storici per quelli che sono, senza parzialità o pregiudizi di sorta.

    • Luca Rasponi scrive:

      1) “Vogliamo esprimere un giudizio morale sul fascismo?, d’accordo facciamolo”
      Hai centrato il punto: questo post non è che espressione del mio punto di vista, e non vuol essere nient’altro. Se segui abitualmente Dissonanze, saprai che nel Magazine proviamo a proporre articoli di appronfondimento il più possibile scevri da considerazioni di carattere personale, mentre qui nel blog c’è spazio anche per le opinioni. Ti inviterei a considerare il mio articolo come una sorta di editoriale in cui esprimo il mio punto di vista (a capire questo dovrebbe aiutarti il fatto che uso spesso e volentieri la prima persona singolare). Mi permetto di aggiungere che il taglio personale di questo pezzo è piuttosto evidente: nessuno qui si sogna – men che meno io – di pensare che il proprio giudizio sia universale o assoluto. Ti faccio notare anche che, contrariamente a quanto scrivi, non ho mai pensato di cancellare vent’anni di storia nazionale: ho espresso la mia condanna nei confronti di un’ideologia, che se vogliamo può essere sicuramente estesa alla fase storica che ha caratterizzato, ma questo non deve assolutamente trasformarsi in oblio. Dimenticare è il modo migliore per commettere gli stessi errori: non a caso il 25 aprile è soprattutto una festa della memoria. Io sono profondamente convinto che capire – e non nascondere – sia il modo migliore per comprendere le cose ed eventualmente combatterle: ti sfido a trovare nell’articolo un punto in cui affermo il contrario, perché non ho scritto né penso quello che mi attribuisci.
      Detto questo, io sicuramentente non sono uno storico – figuriamoci se si può definirmi bravo – e nemmeno un filosofo, per cui lasciamo stare morali giudaico-cristiane, lotta di classe e massimi sistemi: quella che leggi è la mia opinione personale, espressa sulla base di ciò che so e di ciò che penso con la massima obiettività di cui sono capace, che naturalmente non significa prescindere dalla mia soggettività, che soprattutto in discorsi come questi per me come per tutti rappresenta un condizionamento inevitabile.

      2) Come sopra: non c’è alcuna contraddizione nell’affermare che una determinata idea è un valore incontestabile ma la sua messa in pratica ha provocato errori o distorsioni. Tra la teoria e la prassi c’è un divario evidente, e mi sembra chiaro che se una persona o una parte ha ragione nel merito non per questo è automatico che si comporti in modo impeccabile nella sostanza. Avere questa visione in bianco e nero “delle due l’una” e cose simili è un modo di fare che non condivido. Come ho scritto non amo i manicheismi che invece piacciono a tanti, soprattutto quando si parla di politica. E mi sembra piacciano anche a te, visto che o la Resistenza è immacolata oppure va sottoposta a un processo di revisionismo. Il revisionismo è cosa ben diversa dal tentativo che io auspico di guardare con maggior attenzione alle cose, di approfondire tutti gli aspetti delle vicende, cosa che credo debba essere fatta per ogni periodo storico. Revisionismo significa dare una nuova chiave di lettura della storia in base ad un’interpretazione politica della stessa: quello che serve invece, a mio parere, non è una storiografia di destra o di sinistra, ma un’analisi dei fatti compiuta e attenta, che non ha davvero niente a che spartire con il revisionismo che invochi tu. Quello sì che metterebbe in dubbio il valore incontestabile della Resistenza come base del nostro stato democratico, che è sancito dalla Costituzione.
      Accolgo con un sorriso divertito la provocazione gratuita sul fatto che mi guardo bene dal descrivere gli errori della Resistenza: ci mancherebbe pure che il post di un blog, come ho già detto luogo per considerazioni personali di carattere generale, si trasformi nella sede per un accurato trattato storico sulla Resistenza che io non avevo né l’intenzione né tantomeno le competenze per fare.

      3) La “storia dei vincitori”, perdonami, ma i sembra una chiacchiera da bar per nostaligici. Ti ricordo anche, come ha già fatto anche Nicola più sotto, che Giampaolo Pansa è un giornalista e non uno storico, quindi non credo sia corretto rimproverarmi perché non sono un bravo storico e poi riferirsi a chi uno storico non è per dimostrare che le mie opinioni non sono corrette.
      Quanto al resto, verissimo quanto dici riguardo alla radicalizzazione ideale che la neonata Repubblica ha dovuto intraprendere nei confronti del fascismo per consolidare le sue deboli fondamenta: proprio per questo auspico, dopo i decenni trascorsi, un allentamento della legge in questo senso e un’analisi più equilibrata dei fatti. Questo però non significa revisionismo, né tantomeno che la storia sia stata fatta dai vincitori contro i vinti. Significa aggiustare il tiro, perfezionare l’analisi: ripeto, non amo affatto chi pone agli altri solo scelte estreme. Non è che o nevica o c’è un sole che spacca le pietre: nel mezzo c’è tutto il resto.
      A me, ripeto, con questo post non interessava affatto fare un’analisi compiuta della storia quanto piuttosto esprimere il mio punto di vista: per cui lasciamo chi ha repentinamente cambiato casacca a fare i conti con la propria coscienza. Tra l’altro, mi permetto di far notare che chi ha cambiato casacca solo per interesse e non perché aveva davvero a cuore la democrazia oggi si vede lontano un miglio: del resto, si tratta pur sempre di gente che ha avuto un ottimo esempio, dato che tutto è iniziato da un cambio di casacca. Ma non è questo il punto: il punto è che, oggi, la democrazia deve essere difesa come un valore. Se no facciamo la fine del ventennio fascista o degli anni di piombo, dove era abitudine usare la violenza e sopraffare l’altro pur di affermare il proprio punto di vista nella prassi quotidiana della vita politica, e questo è sbagliato al di là del colore della mano che commette i delitti.
      “Se come dici, deve essere data a tutti la possibilità di esprimere liberamente le proprie idee, questo deve avvenire nel rispetto delle idee di cui ciascuno è portatore e soprattutto delle persone che incarnano quei valori. Ciò che deve essere alla base di una memoria storica comune è l’analisi dei fatti storici per quelli che sono, senza parzialità o pregiudizi di sorta”
      Su questo mi trovi d’accordo: il problema è che questo non esclude affatto l’antifascismo. L’antifascismo è un valore politico, la storia è una scienza che va fatta non sulla base delle idee politiche. Per quanto sia impossibile trascendere dalla nostra soggettività, lo sforzo verso l’obiettività dev’essere incessante, per come la vedo, da parte di chi fa mestieri come lo storico o il giornalista. La storia deve raccontarci come sono andate le cose nel modo più dettagliato e imparziale possibile: poi sta a noi, come spero di aver fatto capire con questo commento se non era sufficientemente chiaro nell’articolo, fare una scelta di campo quando si tratta di valori, politici e non. Concludendo: la storia dev’essere la storia e rimanere tale, ci mancherebbe altro: ciò non toglie che la gratitudine, il ricordo e la celebrazione debba spettare a chi ha sacrificato la propria vita per donarci la libertà, e non a chi ci ha gettati nel baratro della guerra dopo vent’anni di dittatura. Questo è e resta comunque il mio punto di vista, con cui né tu né chiunque altro è obbligato a essere per forza d’accordo.

      • Andrea scrive:

        Non è mia abitudine attribuire agli altri quello che non hanno scritto. Ho usato una semplificazione che evidentemente è stata fraintesa. Intendevo dire che definire il fascismo nei termini con cui tu lo hai descritto, equivale nella gran parte dei casi (e non nella totalità, ecco il fraintendimento) a promuoverne la rimozione storica.

        Mi dispiace che anche il termine revisionismo sia stato frainteso. Evidentemente per te tale termine ha solo una connotazione negativa, ma non è così e per verificarlo basta aprire un qualunque vocabolario. http://www.treccani.it/vocabolario/revisionismo/

        Il tuo discorso su Pansa francamente non riesco a comprenderlo. Il fatto che in merito al fascismo ti abbia giudicato “non un bravo storico” non fa di tutti i giornalisti dei cattivi storici. Anche la stessa divisione di ruoli in compartimenti stagni risulta schematica, ci sono storici che sono ottimi giornalisti e giornalisti che sono ottimi storici. Quindi non capisco in cosa sarei stato scorretto.
        A te il fatto che la storia che ci hanno raccontato possa essere definita come la “storia dei vincitori” non piace, è un tuo punto di vista che rispetto. Per me non si tratta di una “chiacchierata da bar tra nostalgici”, ma l’occasione per far luce su un passato falsato e distorto dalla vulgata di sinistra.
        Forse se unitamente al concetto di resistenza, introducessimo anche quello di guerra civile, le cose risulterebbero un po’ più chiare.

        Ti vorrei chiedere in quale articolo della Costituzione compare la resistenza “come base del nostro stato democratico”. Credo mi sia sfuggito.

        • Luca Rasponi scrive:

          Accetto la tua rettifica sul fraintendimento, ma resto dell’idea che una condanna politica non debba mai essere considerata sinonimo di rimozione storica. Anzi, ribadisco che la comprensione e l’analisi storiche debbano sempre essere alla base di ogni giudizio anche politico, positivo o negativo che sia.
          Sul revisionismo la stessa Treccani che tu citi (http://www.treccani.it/scuola/maturita/materiale_didattico/revisionismo/index.html) spiega come negli ultimi anni si sia generata una “confusione” sul termine che probabilmente mi ha indotto in errore. Mi permetterei di precisare però (senza voler aver ragione della Treccani, ci mancherebbe;-) che tra revisionismo storicamente inteso e negazionismo c’è uno spazio che in questi ultimi anni è stato riempito da un revisionismo in chiave politica che propone una rinnovata lettura della Storia non basata su un’analisi più attenta dei fatti, ma su un’interpretazione di matrice politica che è ben altra cosa rispetto alla “Storia oggettiva” che invochi (e che comunque Nicola ci ha spiegato essere concetto superato).
          Su Giampaolo Pansa, io non penso di essere uno storico né migliore né peggiore di lui, e sicuramente come giornalista non siamo nemmeno paragonabili viste le pagine di storia del giornalismo italiano che lui ha scritto e vissuto. Quello che mi premeva puntualizzare, e mi preme ancora adesso, è che non è una questione di steccati, quanto piuttosto di professionalità differenti: storico e giornalista potranno anche essere considerate due professioni liminari, ma non sono la stessa cosa. Anche se in alcuni casi ci sono storici che hanno saputo essere bravi giornalisti e viceversa, di sicuro le due professioni si muovono con criteri di ricerca, tempi e modalità differenti che nel caso di Pansa, come ci ha ben spiegato Nicola, attengono com’è naturale che sia più al giornalismo e meno si adattano alla ricerca storica vera e propria, che ha ben altri crismi. Per cui la tua “scorrettezza” (ma ci mancherebbe, stiamo discutendo molto civilmente) dal mio punto di vista è stata citare un giornalista come se fosse uno storico di sicuro affidamento, quando non è così. Come vedi, non è una questione di steccati quanto di competenze, che determinano il valore e la qualità del lavoro che una persona poi si ritrova a fare.
          Il punto successivo è quello con cui mi convinci di più: non condivido assolutamente, ripeto, il concetto di “storia dei vinti”, né tantomeno le distorsioni e falsificazioni della “vulgata di sinistra”, ma sono del tutto d’accordo sul concetto di guerra civile. Di questo si è trattato, non vedo perché si dovrebbe considerare l’accaduto in maniera diversa. Detto questo, sta poi a ognuno di noi dare il proprio giudizio politico sulla contrapposizione Repubblica di Salò-Resistenza come ho cercato di fare io con il mio post senza alcuna pretesa, ripeto, di fare un’analisi storica compiuta.
          Quanto all’ultimo punto, fraintendimento per fraintendimento, credo proprio di essere stato capito male: nessun articolo della Costituzione afferma che la Repubblica italiana sia stata fondata sulla Resistenza. Detto questo, è evidente che una Carta nata da tutto l’arco politico italiano ad eccezione del fascismo e da padri costituenti che hanno vissuto la guerra civile non certamente dalla parte di Salò, fa della nostra Costituzione un documento nato dall’antifascismo. Il che, di fatto, “sancisce” il valore storico della Resistenza come base della nostra Repubblica: mi perdonerai se ho usato il termine sancire non in senso letterale (come si dovrebbe fare quando si parla di leggi) ma per estensione. Anche in questo caso, comunque, la Treccani può aiutare: http://www.treccani.it/vocabolario/sancire/

  3. Nicola Dellapasqua scrive:

    scusa andrea se mi permetto di aggiungere un punto 4
    4)”il punto è che la storia, come ci insegna Giampaolo Pansa, e quella dei vincitori e non quella dei vinti.”
    primo gianpaolo pansa non insegna proprio niente…quella è un’idea di heagel che poi marx ha posto come cardine del suo sistema filosofico (sic!!)
    secondo Pansa è un pezzo di storia del giornalismo italiano ma lavora proprio sommariamente dal punto di vista della ricerca storica. Detto questo alcuni spunti i suoi lavori li tirano effettivamente fuori il problema è che non riesce a trarne le adeguate conclusioni e alla maggior parte dei suoi lettori (perchè pansa è un grande divulgatore quindi chiaramente viene letto molto di più rispetto agli storici ”veri”) passa una morale da storicismo museale, come per altro ,non me ne volere ma è successo a te. per favore non chiediamo alla storia di fare la demiurga alle nostre confusionarie idee sulla resistenza, dicendo poi ”ho ricostruito minuziosamente tutti gli eventi questa è la storia oggettiva”. questa concezione alla Leopold von Ranke della storia cerchiamo di metterla da parte perchè è puramente figlia del non problatizzare il passato quindi è la negazione di ciò che uno storico dovrebbe fare. come dice L. Febvre fare storia significa ricostruire il passato in funzione del presente…perchè una storia oggettiva o puramente evenemenziale è un utopia ( per motivi legati al concetto stesso di memoria che adesso non riesco ad affrontare per motivi di lunghezza). per quanto riguarda la lezione di pansa, credo che dovremmo riflettere sul fatto che oggi il nostro paese ha bisogno di una storia condivisa, in cui tutti possano riconoscersi. una narrazione che raccolga le esperienze di tutta una nazione…pansa ci ha dimostrato come ad esempio nei luoghi delle foibe il 25 aprile racconti una storia che non combacia con la memoria e con le esperienze di quelle comunità. tu hai anche ragione quando dici che l’antifascismo non può essere alla base della nostra memoria condivisa, però bisogna ammettere (e questa di rovescio è un’altra conditio sine qua non per la costruzione della nostra memoria condivisa) che l’antifascismo è sta dietro alla possibilità di costruire una memoria condivisa, questa discussione che noi oggi intavoliamo è una legacy di una comunità nazionale democratica che ha visto il suo momento istitutivo nell’antifascimo.il conflitto col fascismo è ciò che connota un’idea di società, di sviluppo, una via alla società di massa prettamente in divergenza col fascismo: anti fascista. non voglio deludere nessuno ma anche il PCI attraverso una dinamica certamente travagliata e di lungo periodo ha aderito a questo programma di società che in fondo trova nella nostra costituzione un manifesto. oggi però noi non dobbiamo dare il voto ai partiti dell’arco costituzionale ma dobbiamo avere il coraggio di costruire una memoria in cui tutte le esperienze vengano incluse. poi le celebrazioni sono un’altra cosa, lo stato ha il dovere di celebrare chi l’ha istituito neutralizzando un conflitto con chi voleva un altro stato, ricordare quel conflitto significa ricordare il perchè abbiamo stipulato quel patto che costituisce la vita associata…per chi è tutt’oggi contrario al progetto di nazione che si è realizzata, non credo ci sia l’obbligo coatto a partecipare alle celebrazioni o a partecipare alla vita democratica del paese…anzi consiglio a chi ha nostalgia del fascismo di andare alla stazione e celebrare i treni democratici che arrivano in ritardo…nessuno glielo impedirà di certo

    • Luca Rasponi scrive:

      Ecco, dopo aver scritto un romanzo per rispondere ad Andrea mi accorgo che bastava fare copia e incolla con la risposta di Nicola, che è uno storico e pure bravo, quindi sa quello che dice e lo dice con tutte le citazioni e i tecnicismi del caso. Che dire di più, sono completamente d’accordo su tutto: sul fatto che Pansa non è uno storico e fa soprattutto divulgazione, sul fatto che la storia della Liberazione ha alcune lacune che vanno colmate come le stragi delle foibe cui fai riferimento, sul fatto che l’antifascismo non può essere base di una memoria condivisa ma è inevitabilmente la piattaforma su cui poggiano la nostra democrazia e la nostra società, sul Pci, sulle manifestazioni del 25 aprile e sui treni in ritardo.
      L’unico punto su cui mi permetto una piccola obiezione – senza però aver mai letto una riga di von Ranke e veramente poco di Febvre – è che sicuramente non si può ricostruire una storia assolutamnete oggettiva così come non si può scrivere un articolo di giornale assolutamente oggettivo (esiste poi l’oggettività?). Ciò però a mio parere non toglie, come ho scritto, che lo sforzo verso l’obiettività e una ricostruzione il più possibile aderente ai fatti debba essere la stella polare per il giornalismo quanto per la storia, come una sorta di punto verso cui tendere anche se non ci si arriverà mai. Poi, diversamente dal giornalismo, la storia è fatta di lunghi periodi e quindi va interpretata nel suo svolgimento complessivo, il che rende più complesso questo tipo di attenzione tirando in ballo con più forza la sempre presente soggettività dello storico. Ciò non toglie che, secondo me, da un confronto di più punti di vista e teorie possa nascere un’interpretazione condivisa ritenuta valida dai più, che non c’entra nulla con la valutazione politica o valoriale di un determinato periodo storico.
      Sto dicendo assurdità Nico?

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