2003-2011, Iraq sola andata
«La guerra è finita»: una frase usata spesso per l’Iraq, senza mai essere vera. «Mission accomplished» annunciava trionfante Bush nel maggio 2003, due mesi dopo l’inizio del conflitto. «It’s over» ha dichiarato più sobriamente Obama il 1° settembre scorso. La realtà è che, dopo oltre otto anni di guerra, 50mila soldati Usa sono ancora in Iraq per addestrare le truppe del nuovo esercito nazionale, mentre attentati e scontri continuano, e la pace sociale pare lontana.
Tutto è cominciato con l’attacco ordinato dal presidente George W. Bush il 19 febbraio 2003, senza alcuna autorizzazione preventiva da parte delle Nazioni Unite. Una scelta maturata nella convinzione che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa, presunta certezza rivelatasi poi del tutto infondata.
In una nazione ancora scossa dopo l’11 settembre 2001, l’ipotesi di un legame tra Saddam e Al Qaeda, unita alla paura di nuovi attentati, aveva creato terreno fertile per la propaganda dello spin doctor Karl Rove. L’America si era convinta presto della necessità di attaccare l’Iraq nell’ambito della guerra globale dichiarata da Bush al terrorismo.
Quando lo sbarco in Iraq ha dimostrato l’inesistenza delle armi temute, confermata di recente dall’uomo che ne aveva rivelato la presenza ai servizi segreti occidentali, l’Amministrazione Bush ha virato verso una diversa giustificazione del conflitto, intrapreso per liberare il popolo iracheno dalla dittatura.
Un proposito in sé positivo, ma non attuabile con la guerra, come dimostra anche il caso afghano. Dalle ceneri dell’attacco preventivo e dell’intervento umanitario, emerge quindi una motivazione ben più concreta per la scelta di invadere l’Iraq: quella dell’interesse geopolitico ed economico.
Con la sua decisione, Bush ha onorato il principio cardine del realismo politico, da Machiavelli a von Clausevitz: il primato dell’interesse nazionale su qualsiasi ragione morale. Una linea imposta dalla lobby neoconservatrice Project for a New American Century, composta dai falchi dell’Amministrazione repubblicana, Dick Cheney e Donald Rumsfeld su tutti.
L’ex responsabile antiterrorismo Usa Richard Clarke, come riporta Marcello Foa nel suo Gli stregoni della notizia, spiega che la guerra in Iraq è stata intrapresa per: «ripulire il casino lasciato nel 1991 (con la Guerra del Golfo, ndr). Migliorare la posizione strategica di Israele. Creare una democrazia araba che potesse servire da modello ad altri Stati arabi amici. Consentire il ritiro delle truppe Usa dall’Arabia Saudita. Ridurre la dipendenza dal petrolio saudita creando un altro approvvigionamento petrolifero sicuro per il mercato statunitense».
Nell’arco di otto anni il secondo conflitto iracheno ha causato centinaia di migliaia di morti. Milioni di manifestanti in tutto il mondo avevano chiesto di non ricorrere alle armi. È logico quindi continuare a porsi una domanda, rimasta senza risposta da quel lontano marzo del 2003: è ancora ammissibile l’idea di intraprendere guerre favorevoli all’interesse nazionale, ma in pieno contrasto con la morale condivisa, l’opinione dei cittadini e il diritto internazionale?
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Purtroppo certe cose cadono nell’oblio di una stampa più attenta allo scoop e al denaro piuttosto che a farci capire come vanno a finire le cose. Sarebbe anche interessante riflettere sulla guerra in Libia. Pare un po’ più difficile qui intravedere chiaramente l’interesse economico. Forse è un caso a sè stante? Forse veramente si è intrapresa per salvare vittime civili? Ad ogni modo pare cadere nel dimenticatoio mediatico anch’essa.
Sul fatto che la stampa raramente persegua l’approfondimento devo darti ragione, però putroppo la rapidità che caratterizza la maggior parte dei mezzi di comunicazione contemporanei (tv e internet su tutti) e l’interesse non sempre altissimo del pubblico purtroppo non aiutano. E comunque non mancano del tutto i canali dove approfondire questi temi anche in tempi lunghi, basta sapere dove cercare. Mi permetto un consiglio: http://it.peacereporter.net/homepage.php
Quanto alla guerra in Libia, sei proprio sicuro che sia difficile vederci l’interesse economico? Basta dare un’occhiata a questo articolo del Sole24ore per rendersi conto degli interessi che hanno mosso i Paesi occidentali alla guerra: http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2011-02-21/libia-quarto-produttore-petrolio-114808.shtml?uuid=AaHGAEAD
La Francia, che ha sostenuto da subito l’intervento armato, è probabilmente quella che ha più da guadagnarci, l’Italia -che già aveva accordi con Gheddafi- si è inserita all’ultimo nel conflitto proprio perché era quella che aveva più da perderci. Il compenso che riceveranno i Paesi Nato dal nuovo governo democratico libico in termini di priorità sull’approvvigionamento energetico mi sembra più che sufficiente a ripagare le spese della guerra.
Buttarsi sulla torta dell’energia libica dimostra una volta di più come le nazioni occidentali non siano ancora in grado di pensare una politica energetica indipendente dai combustibili fossili e come sia l’interesse il principale motore delle guerre.
Poi in casi come questo, che ricorda lontanamente il Kosovo, è chiaro che ci sono anche importanti ragioni umanitarie. Ma fai caso a questo: dove sono presenti importanti interessi economici si interviene sia in presenza di ragioni umnitarie (Libia), sia dove queste ragioni praticamente non esistono o quantomeno non sono a livello di emergenza (Iraq), mente invece non si alza un dito in caso di disastri umanitari lontani dall’occidente in cui non ci siano in ballo risorse economiche importanti(caso simbolo il Tibet, ma lo stesso discorso vale per Congo e Rwanda, e potrei continuare ancora).
Basta il veto una delle potenze del Consiglio di Sicurezza Onu e tutti stanno immobili, quando invece nel caso iracheno Bush è andato per la sua strada nonostante l’assenza di una risoluzione che lo autorizzasse alla guerra. Mi sembra evidente che, per i potenti della terra, le ragioni umanitarie contano solo sul piano della comunicazione.
No, tranquillo le questioni economiche ci sono anche in Libia, sono più velate e nascoste forse, ma alla favoletta che “la guerra si fa per le vittime civili” davvero non ci si può credere. Anche perché, per quale motivo porsi il problema della dittatura proprio adesso e non 10, 15, 20 anni fa o prima? Ci sono questi due articoli che lasciano trasparire qualche spiegazione (non so se già vi è capitato di leggerli, io li segnalo lo stesso, mi sembrano fatti bene) [http://www.altrenotizie.org/esteri/4097-la-guerra-infinita-in-libia.html] [http://www.altrenotizie.org/esteri/4047-guerra-alla-libia-e-alleni.html]. In ogni caso, sono d’accordo sul fatto che non se ne parli abbastanza. Così come non si parla abbastanza dell’Iraq, dell’Afghanistan e di tutti gli interessi sottostanti. I giornali e le tv ci riempiono di chiacchiere sugli eventi per così dire “di cronaca” o di propaganda: chi e cosa è stato bombardato, quanti aerei sono serviti, quante navi, report sui morti. Per carità cose che bisogna sapere. Ma ci interesserebbe sapere anche il “perché” vero, reale, no?
Quindi, complimenti per l’articolo. La risposta alla domanda finale è ovviamente no, ma siamo ben lontani dal far sì che questo possa accadere nella realtà. Profonda amarezza.
Carmela ha centrato esattamente il punto, sia per quanto riguarda Gheddafi (lo si poteva attaccare molto prima visto che regna in Libia oltre quarant’anni) sia sull’informazione, che troppo spesso è spezzettata e fornendoci fatti a brandelli disconnessi non ci permette di capire la verità d’insieme.
Articoli come quelli che hai linkato fanno proprio questo: cercano di dare il quadro della situazione, che poi è anche quello che ho provato a fare io con il mio pezzo. Nonostante l’amarezza per queste guerre che continuano per gli stessi motivi di sempre, non bisogna fermarsi e si deve continuare a raccontare la verità sperando che serva, prima o poi, a cambiare le cose.